La Lazio di Pioli aveva riconquistato tutti, poi il buio.
Di Beatrice Fiaschi
L’era
Pioli è terminata. Da quel fatale 3 aprile e dal derby perso pesantemente ora
però sembrano essere passati anni luce e la Lazio si è rimboccata le maniche,
facendo un’importante mea culpa. Il nuovo tecnico Simone Inzaghi, idolo
della Primavera - in poco più di due anni ha assicurato alla squadra ben due
Coppe Italia, una Supercoppa e una finale scudetto
- ha segnato un’epoca
importante alla Lazio come calciatore, e ora ha una fondamentale possibilità
professionale per farlo anche da allenatore. Sin dal ritiro punitivo di Norcia,
il tecnico si è posto con grande autorevolezza rispetto ai giocatori, ha
preteso dei faccia a faccia per capire le intenzioni di ognuno e alla fine, di
ognuno ha conquistato la fiducia. La maggior parte dei tifosi pure appare
soddisfatta, a dispetto di chi comunque auspica l’arrivo in panchina di un
grande nome per il futuro. Nome che potrebbe essere quello di Prandelli. I
risultati fin qui raccolti con Simone al timone forse sono stati positivi - sconfitta a Genova con la Samp a parte - e la
compagine bianco-azzurra sembra nel complesso star meglio e aver riacquistato
una dignità che pareva ormai persa, con un rinnovato atteggiamento tattico
fatto di verticalizzazioni e repentini cambiamenti di fronte.
Sarà ora tutto da vedere per il futuro. Il
tecnico piacentino è infatti stato convocato d’urgenza per il ritiro a Norcia
dopo la brutta sconfitta contro la Roma apparentemente come traghettatore per
garantire un più sereno finale di stagione. Questo almeno era l’intento
dichiarato dalla società all’inizio, ma il sentore è che se Simone Inzaghi
giocherà bene le sue carte potrebbe guadagnarsi un posto in panchina per la
prossima stagione. Questo potrebbe significare una nuova continuità in casa
Lazio e anche un orientamento più giovane, volto a valorizzare un tecnico
fresco e conosciuto nell’ambiente per riconsolidare quei valori di lazialità
ultimamente un po’ dimenticati. D’altra parte però alcuni giocatori di rilievo
sarebbero disposti a rinnovare contratto e fiducia alla Lazio solo in caso di
un progetto diverso, orientato verso rinforzi di spessore e nomi importanti, a
partire proprio da quello dell’allenatore. Si vedrà.
Per quel che riguarda il passato invece,
occorre fare il punto sull’era Pioli che, seppur finita male dopo una lenta
agonia, ha rappresentato forse un unicum nella storia della Lazio. Se si
escludono infatti le compagini scudettate – di altri tempi e di altre
possibilità economiche – la squadra presentata da Pioli specialmente nella
stagione 2014/2015 sicuramente a tratti ha conquistato il pubblico amante del
bel calcio per il valore del gioco espresso e della mentalità trasmessa ai
giocatori in campo. Il tecnico parmigiano – che all’iniziale proposta della
società di un contratto biennale preferì optare per un contratto annuale con
possibilità di rinnovo in caso di conquista dell’Europa, come in effetti è
stato – ha infatti portato in casa Lazio una innovativa filosofia: giocare per
vincere, non importa se si rischia di perdere. E infatti la squadra
bianco-celeste, poco orientata al gioco di rimessa e mai difensivista, con
Pioli in panchina ha spesso disdegnato il pareggio e ha sempre cercato di
imporre il proprio gioco alla squadra avversaria, non solo all’Olimpico, anzi,
diventando spesso molto più bella fuori casa. Tanto possesso palla, azioni
impostate sin dalla linea difensiva, gioco molto orizzontale, attenta tessitura
di passaggi corti e grande responsabilizzazione del regista di centrocampo,
queste le caratteristiche della Lazio di Pioli, di carattere senza dubbio anche
se spesso poco concreta, con problemi di finalizzazione e troppo vulnerabile in
contropiede. L’affascinante filosofia di Pioli ha mostrato infatti dei limiti:
imporre il proprio gioco diventa molto dispendioso soprattutto se non si
finalizza al massimo quanto costruito e comporta una più facile esposizione al
contropiede avversario qualora un passaggio vada storto. Ecco spiegati i tanti
goal subiti di rimessa, le troppe reti su palla inattiva o su palla persa a
centrocampo. Il campionato 2014/2015 ha regalato a Pioli
e alla Lazio un inatteso terzo posto, lasciando in bocca quel saporitissimo
sentore di speranza per la stagione successiva. Nell’attuale campionato però,
dove a rigor di logica la Lazio si sarebbe dovuta consolidare come potenza
indiscussa in Italia e rilanciarsi in Europa, quelle dolci attese sono state
completamente disilluse e, quando questo avviene, una delle dure leggi del goal
vuole che sia l’allenatore a farne le spese. Il tracollo in casa con lo Sparta Praga
e la conseguente uscita dall’Europa il 17 marzo, così come l’ennesimo derby
perso, hanno sancito l’esonero di Pioli a tre quarti di una stagione dove per
la verità la Lazio ha sempre stentato, cessando di essere quella bella e
impossibile dell’anno precedente. Una stagione certo non iniziata sotto
migliori auspici a causa dell’infortunio di De Vrij e senza quei rinforzi che
forse ci si aspettava per eseguire un salto di qualità che in effetti non c’è
stato. Vero è che, venendo a mancare il difensore centrale più forte della
squadra – e probabilmente di tutta la serie A – l’unico in casa Lazio in grado
anche di impostare l’azione, forse il tecnico avrebbe dovuto gestire
diversamente l’assetto tattico della squadra, a partire proprio dalla difesa,
dove si sono passati la palla in tutti i sensi Mauricio (troppo falloso), Hoedt
(troppo giovane e inesperto), e da Gennaio l’unico nuovo acquisto di
riparazione, Bisevac, un giocatore d’esperienza ma non certo all’altezza
dell’olandese. Una linea arretrata troppo spesso rimaneggiata, senza titolari
inamovibili, troppo nervosa e poco organizzata. Con Inzaghi invece in difesa ha
ritrovato spazio un dimenticato Gentiletti reintrodotto come titolare fisso,
sicuramente con un buon impatto sull’intera fase difensiva.
Anche la gestione delle punte non è stata
delle migliori negli ultimi tempi dell’era Pioli: troppo poco spazio per Keita
e un incessante avvicendarsi di Klose, Matri e Djordjevic in avanti, anche qui
senza mai una netta scelta che magari avrebbe potuto creare una sana
competizione tra i tre. Il tutto aggravato da un Felipe Anderson non
all’altezza della scorsa stagione – forse un abbaglio le 9 partite consecutive
giocate da fenomeno? – e da un pericoloso gioco di rivalità tra Candreva e
Biglia per la fascia di capitano che ha portato il bell’Antonio a non dare il
meglio di sé in campo, destabilizzando anche uno spogliatoio che forse era
diventato troppo scivoloso per Pioli.
Si è concluso così il suo tempo alla Lazio,
di quello che sarà nel futuro vedremo. Al popolo laziale rimane una sua massima
che tifosi e giocatori è bene ricordino in ogni occasione: meriti e demeriti
vanno sempre condivisi.
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